gennaio 28, 2002

Viaggio a Kandahar

Il film racconta di Nefas, una giovane giornalista afgana rifugiata in Canada che, ricevuta una lettera disperata della sorellina che è rimasta in Afghanistan in cui le annuncia che si toglierà la vita prima dell’eclissi di sole che sta per verificarsi, decide di tornare in tempo per farla desistere. Nefas era fuggita durante la guerra civile dei Talibani e tenterà di attraversare il confine Iran-Afghanistan…
“Questo film è come una guida di viaggio. La forma si è imposta mentre scrivevo la sceneggiatura e si è evoluta durante le riprese. Quando si guardano queste donne avvolte dai loro burka, c’è un’armonia estetica esteriore, ma all’interno, sotto ogni burka, una donna viene soffocata. È una strana contraddizione. Poiché non hanno il diritto di mostrare la propria bellezza fisica, la sostituiscono con la bellezza degli abiti” ( Mohsen Makhmalbaf ).

Il film, uscito nelle sale il 12 ottobre 2001, appena iniziata da parte di Usa e Gran Bretagna la penetrazione in Afghanistan, è stato girato in tempi “non sospetti” e rappresenta un documento impressionante della condizione sociale degli abitanti, le donne specialmente, di questi luoghi.

Imbarcarsi in un viaggio nella terra dei turbanti neri è come fare un salto nell’ignoto. È un viaggio verso l’irrazionale, verso l’incomprensibile. È come se, oltrepassato il confine afgano si dovesse abbandonare tutto il proprio bagaglio di conoscenze.
L’Afghanistan che il regista ci mostra non è una finzione: è una discesa nell’oscurità, una spedizione in un altro mondo, un mondo che appartiene ad un’altra epoca, dove la parabola, a tratti magica, enfatizza la triste realtà.
Il film puro e bellissimo, accordato alla perfezione come le corde di un violino proibito, è una supplica vibrante, un appello di aiuto. Una supplica per le donne, condannate alle sbarre dai loro burka, una prigione di cotone e una cittadella di totale solitudine. Una supplica per gli amputati, le truppe degli storpi, ferite dalle mine. Una supplica contro il totalitarismo teocratico, lo stalinismo religioso, che agisce con ferocia in questa landa dimenticata.

Forse per comprendere la profondità del film bisogna, come Nefas, “mettere la propria anima in viaggio” .
L’altro mondo di Marco Lodoli
La globalizzazione è un sistema di vasi comunicanti in cui confluiscono anche sofferenze. Come quelle degli afghani.(Fonte: DIARIO, anno VI, n. 43 – 2001)

All’uscita del Viaggio a Kandahar avrei voluto inginocchiarmi sul marciapiede e baciare il suolo sporchetto e meraviglioso della mia città, abbracciare la gente che passava frettolosa o imbronciata, offrire una birra a tutti, e poi annunciare alla popolazione intera, e naturalmente a me per primo: cari fratelli inariditi e scontenti, noi forse ci siamo dimenticati della fortuna che abbiamo avuto, del primo premio della lotteria che abbiamo pescato nascendo in questi luoghi tutto sommato pacifici e liberi.
Non ringraziamo a sufficienza la vita, la soffochiamo sotto una frana di oggetti superflui e di ambizioni ciniche e aggressive. Così stiamo perdendo contatto con il midollo dei giorni, con la nostra vera natura umana, il troppo ci schianta, l’inutile ci amareggia, la stupidità ci frastorna, e invece potremmo essere semplici e onesti, condividere un’esistenza sincera, spontanea, affettuosa. Noi che possiamo farlo, dobbiamo almeno provarci, mentre in certe parti del mondo, in tante parti, gli uomini e le donne vivono isolati nel terrore, umiliati e offesi, e tutto viene loro negato, il pane e la speranza e persino le gambe per fuggire. Andate a vedere questo film sull’Afghanistan, non siate pigri, non fatevi scoraggiare dall’argomento tragico e da qualche lentezza. Anche voi dimenticherete le polemiche pacifiste o interventiste e solo vi domanderete tante volte perché, e ogni volta sarà uno strazio: povera gente dell’Afghanistan, perché a loro è capitato un destino così atroce? Perché i loro bambini devono ripetere ossessivamente i versetti del Corano, e guai se stonano, guai se si imbrogliano con le parole, un Mangiafuoco può punirli in ogni momento, perché?
E perché le donne non possono neppure farsi visitare da un medico quando sono malate, ma devono rimanere dietro un telo e comunicare con il dottore tramite un bambino che ripete le domande e le risposte? E perché tanti mutilati, chi ha nascosto nei campi le mine crudeli che strappano gambe e braccia? E perché la terra è così secca, perché non c’è acqua e non ci sono alberi? I motivi forse si possono trovare, forse si possono individuare i responsabili: qualcuno ci spiegherà che sono stati i russi, o gli americani, o l’Islam più severo e arretrato, la natura maligna o le guerre fratricide.
Noi, seduti nel cinema di fronte a quelle immagini spaventose, capiamo solo che il mondo è un sistema di vasi comunicanti, e per quanto gli occidentali e gli islamici cerchino di proteggere le loro ampolle, di sigillare i confini e i cuori, la pena viaggia, il dolore si sparge, e alla fine tutto riguarda tutti, il veleno si versa in ogni vita. Quando si parla di globalizzazione si pensa sempre a un mercato generale, a un via vai eccitato di prodotti e denari: ci sentiamo cittadini del mondo perché abbiamo un po’ di azioni australiane sul conto, un ristorante cinese sotto casa e uno messicano all’angolo, un cappelletto arabo nell’armadio e sulle spalle una maglia di cotone fatta a Taiwan. Ma se siamo davvero globalizzati, dobbiamo cominciare a mettere in comune anche le sofferenze, mescolare fortune e sfortune, riconoscerci tutti abitanti dello stesso minuscolo pianeta.
Le differenze culturali, religiose ed economiche sono impressionanti, ma le somiglianze lo sono ancora di più. Tutti siamo nati e moriremo, abbiamo una bocca e due occhi, gli stessi sogni di felicità e tante paure simili, lo stesso sangue che pulsa e può seccarsi in un momento. Stiamo tutti sotto lo stesso cielo, non è giusto che gli dèi se lo contendano: è il nostro povero cielo. Bisogna che l’ONU svolga finalmente un ruolo decisivo, non c’è dubbio, ma sarà necessario anche modificare le nostre esistenze individuali. C’è un’energia segreta che parte da ognuno di noi, e si somma a quella degli altri, e sposta l’ordine delle cose. Da troppi anni perseguiamo obiettivi violenti ed egoisti, arraffiamo, consumiamo a casaccio, ce ne freghiamo.
Il deserto dell’Afghanistan comincia nella mente folle dei talebani, i bombardieri si sollevano dalle piste dei nostri pensieri.

gennaio 27, 2002

Essere John Malkovic


Un burattinaio, John Cusack, un giorno scopre un portale che gli permette di entrare nella mente e nella vita dell'attore John Malkovic.
Costretto a lavorare come archivista in un'azienda situata al settimo piano e mezzo (!) di un edificio per poter sbarcare il lunario, Craig scopre dietro uno scaffale un tunnel, che porta direttamente nella testa dell'attore John Malkovich (interpretato da se stesso). Così, quando l'ufficio è chiuso, decide di dar luogo a una strana attività in compagnia della sua collega Maxine: per duecento dollari i newyorchesi interessati possono vivere l'incredibile esperienza di essere per quindici minuti la star del cinema John Malkovich.

Essere John Malkovich è un interessante ed originalissimo film, pieno di trovate mai viste e difficilmente imitabili senza cadere nel plagio.
Racconta un desiderio probabilmente tipico di molte persone, cioè essere, anche per poco tempo, qualcun altro.Diretto dall’esordiente Spike Jonze (già regista di molti videoclip), si passa dalle risate alla tensione, fino ad una conclusione struggente che consente al film di non cadere mai nell’ovvio, nel gratuitamente ridicolo o nell’eccessivamente patetico.

gennaio 26, 2002

Le fate ignoranti

Di certi momenti della nostra vita ricordiamo soprattutto il luogo dove accaddero, quello spazio lo conserviamo ancora dentro di noi, dove si è sommato a mille altri spazi: era la stazione di un paese del Nord, ad esempio, l'aria pungeva e il treno avanzava lentamente sui binari, le panchine erano bagnate, sul banco del giornalaio le riviste provavano a intromettere i loro colori in quel grigio desolato, e una donna parlava con la voce spezzata. Ma oggi le sue parole non le sentiamo più, si sono perdute insieme ai motivi di quell'addio, e anche il suo viso è quasi svanito, s'è ritirato con la marea del tempo perduto.
Il luogo, invece, è rimasto intatto, potremmo descriverlo in ogni dettaglio, raccontare la disposizione delle valigie e le sagome dei vagoni che sfilavano come nuvole lunghe nel cielo di gennaio. La malinconia di quel minuto s'è trattenuta nello spazio che si è versato per sempre in noi. E lo stesso vale per l'aula in cui abbiamo trascorso da bambini un anno intero: la lavagna girevole, i muri bianchi, la cattedra sollevata sulla pedana di legno, le finestre affacciate sul cortile - tutto è rimasto perfettamente intatto nella nostra memoria, nell'anima direi, mentre le situazioni che si sono susseguite in quello stanzone scolastico sono evaporate, e con loro tanti nomi e tanti profili.

Con Le fate ignoranti, personaggi e situazioni paiono partoriti dagli ambienti, che sono ricreati con grande realismo. La casa della signora borghese, rimasta tragicamente vedova, esprime tutta la tristezza di chi la abita: un prato all'inglese declina verso il fiume, e in quella verde penombra due chaise-longue stanno una accanto all'altra, come un marito e una moglie che non si sono mai detti la verità e che ormai non hanno più il tempo per rimediare. Tutt'altra cosa è l'appartamento del giovane amante del morto: un attico popolare arrampicato come un monello nel cielo del Testaccio, accanto alle trine metalliche del gazometro. La sua terrazza è aperta al sole, e a quel tavolo lungo circondato da seggiole spaiate può sedersi solo un'umanità caotica e ciarliera, bizzarra e generosa. Il film è un confronto di caratteri, ma anche di ambienti credibilissimi: da un lato una villa separata dalla vita, protetta con il denaro e il sospetto, linda e silenziosa come un camposanto - e dall'altro una casetta che è un porto di mare, un appartamento che somiglia a un quartiere arabo, con la felicità e il dolore bene in vista.
Sono luoghi dove l'amore si pronuncia diversamente: con un mormorio beneducato e con un grido acceso. Ferzan Ozpetek sa come preparare i campi dove si gioca la vita, e anche se poi le vicende tendono a ristagnare, non c'è dubbio che tornati a casa nostra ci guardiamo attorno per controllare cos'è la nostra vita, chi siamo, come se d'improvviso guardassimo in uno specchio.
In un incontro con la stampa, Ozpetek, il regista, ha tenuto ad affermare che "bisogna vivere il dolore per apprezzare la vita; l'importante è come affrontarlo, cercando sempre di sdrammatizzare il più possibile. Spesso, per cambiare la propria vita, non è necessario partire, affrontare l'ignoto, perdersi in panorami esotici e lontani: a volte basta bussare alla porta di chi ti vive accanto, aprire la finestra e lasciare entrare lo sguardo di chi passa mentre anche tu lo stai guardando. E' questo anche il senso del film, che vuole essere un invito ottimista a fidarsi del prossimo, a non avere pregiudizi, ad abbandonare la paura di chi parla con lingue e\o moralità diverse o anche soltanto chi non la pensa come noi.
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gennaio 25, 2002

Il mestiere delle armi

Il cinema silenzioso e minimale al servizio della Storia

Questo l'Ermanno Olmi uscito da Cannes 2001. Cantore del quotidiano fin dagli esordi( “Il tempo si è fermato", 1959) in questo suo ultimo film il grande regista sembra voler dare un quadro definitivo dell'Uomo e del suo Destino. E tutto senza allontanarsi minimamente dai suoi sguardi e toni precedenti. Anzi, dando ad essi contorni e inquadrature che solo un regista giunto al culmine della sua arte può offrirci. Gli ultimi giorni di vita dei condottiero papalino Joanni de’ Medici, detto "dalle Bande Nere", morto a soli 28 anni nel 1526, a seguito delle ferite riportate in battaglia, questa l'esile trama di un film che racchiude in sé verità sulla Vita e la Morte. E' nel '500 che il regista intravede, infatti, l'inizio di quella Modernità che fa dell'uomo strumento e non più Essere. La modernità del Pensiero e della Tecnologia è più dei Lanzichenecchi di Carlo V la vera nemica di Joanni. Machiavelli e le armi da fuoco, allora all'esordio, squarciano l'esistenza e l'armatura dei mestieranti dell'arma bianca, conducendo all'agonia l'Eroe che non conosce compromessi e archibugi, spalancando le porte della Storia all'incertezza e alla vulnerabilità. Ecco che allora il cerchio naturale Vita-Morte , simboleggiato dallo scontro corpo a corpo, si rompe senza più possibilità di ricucirsi. E a conferma di quanto la natura umana sia recidiva nell'accompagnarsi al male, Olmi inserisce, significativamente, all'inizio del film la frase del poeta latino Tibullo sulle spade«usate oramai dall'uomo più per uccidere che non allo scopo, per cui erano nate, di facilitarne la vita»; mentre, dolorosamente rassegnato, chiude il film sull'appello cinquecentesco, seguito proprio alla morte di Joanni«affinchè mai più venisse usata contro l'uomo la potente arma da fuoco».
La religiosità dell'autore de "L'albero degli zoccoli" non si appella, dunque, a nessun maligno da scacciare, crocifisso in mano, e prende invece atto dei fallimenti dell'uomo dinnanzi a se stesso. Il cannone, ripreso sapientemente e ripetutamente in primo piano, altro non è che il simbolo di una bocca ferina aperta dall'uomo e nutrita dallo stesso con la propria carne. Il non riuscire a dominare il proprio essere, la propria intelligenza, è lo scacco assoluto entro cui l'umanità si è irrimediabilmente collocata. Il tradimento machiavellico perpetrato dai Gonzaga e dagli Estensi a danno di Joanni, e finalizzato dal colpo di cannone lanzichenecco che ne spappola la gamba portandolo alla morte, altro non è che uno dei milioni di gesti che hanno condotto la storia ad un tragico concatenarsi di cause ed effetti, sulla grande ruota dei gioco delle convenienze. E' un cinema capace di sorprendere nel sapiente muoversi dei protagonisti nelle scene corali, in cui i soldati disseminati su campi di battaglia aridi, nebbiosi e senza confini sembrano fantasmi di se stessi in balia di un destino già scritto. E quando dal corale si passa alle scene individuali, l'arte di Olmi si fa somma, sfiorando il puro incantamento nella capacità che egli ha di comunicarci appieno la percezione della morte che sta vivendo il protagonista, nei quattro giorni della sua agonia. Tutti, medici e soldati, si muovono attorno a Joanni moribondo in un chiaroscuro che Olmi, in maniera geniale, disegna come anticipazione di un altrove che presto accoglierà le ombre del martire guerriero, vissuto alla fine di un'epoca che in extremis lo ha accolto come eroe. E la sequenza finale dei funerali segna il momento solenne con cui si chiude un'esistenza ed un mondo oramai al tramonto. Il ricordo della moglie e dei figlio lontani, che sul letto di morte coglie Joanni, come pure l'immagine della nobildonna suo segreto amore, sono legati nella penombra di una visione che nel suo svanire segna la fine di un’esistenza vissuta nell’osservanza di una morale necessaria al vivere comune. Riemerge, dunque, prepotente, ancora una volta, uno dei grandi temi dei cinema di Olmi la solitudine dell'uomo dinnanzi alle grandi imprescindibili scelte della vita. E come a voler fissare tutto ciò nella memoria dello spettatore, il regista si sofferma lungamente, nel prefinale, sul corpo oramai inerme e straziato di Joanni, ad estrema testimonianza dell'offesa che Nomo ha irrimediabilmente arrecato al suo prossimo e dunque a se stesso. Quello di Olmi è, come sempre, cinema di poesia, capace quando coniugato alla Storia, come in questo caso, non soltanto di emozionare ma anche di ricordare chi siamo, da dove veniamo.e quale destino ci attende.
Lungo il corso del ‘400 ci sono varie modifiche in tanti campi. Uno di questi è quello della guerra. Il processo di formazione di un esercito di tipo nuovo, fondato sulla preminenza della fanteria rispetto alla cavalleria, offre più sicurezza. Gli eserciti offrono alle monarchie nazionali quel sostegno che nei secoli precedenti la cavalleria, espressione dei ceti feudali, aveva spesso fatto mancare. Tutto ciò determina una crisi progressiva di un’altra importante istituzione medievale, la compagnia di ventura. C’è anche un affinamento della tecnologia militare: i pesanti archibugi, apparsi agli inizi del secolo, divennero più leggeri e precisi, oltre che più sicuri per chi li manovrava, grazie all’impiego della miccia a combustione lenta.
La diffusione di armi da fuoco sempre più affidabili diede il colpo finale al vecchio modo di guerreggiare: si pensi all’armatura, simbolo dell’epoca, che di fronte alla forza dei proiettili perse ogni significato. La guerra con le armi da fuoco diventa un fenomeno sociale, che non può più lasciare indifferenti.

La fine della cavalleria e dei suoi valori, veri o presunti che fossero, suscitò un vasto rimpianto in coloro che avevano idealizzato il mondo che la circondava. Nell'Orlando furioso Ludovico Ariosto (1474-1533) evita consapevolmente, in quasi tutto il poema, di far riferimento alle nuove armi da fuoco.
L'unico cenno esplicito alla questione, per bocca del narratore del poema, si ha alla conclusione del duello fra Orlando e Cimosco. Ariosto si scaglia con irruenza contro le armi da fuoco, utilizzate poco cavallerescamente dall'avversario del paladino. Tali armi sono elencate come un'accozzaglia di strumenti diabolici quasi incomprensibili e accusate di stravolgere tutto il sistema di valori militari (il valore, la virtù, la gagliardia, l'ardire) della cavalleria. Pertanto Orlando, il modello delle antiche virtù cavalleresche, viene incaricato da Ariosto di gettare in fondo al mare un antico prototipo dell'archibugio, di cui si serve il truce e fellone re di Frisia, Cimosco. Invano: secoli dopo la "machina infernal" verrà ritrovata.





La machina infernal, di più di cento
passi d'acqua ove stè ascosa molt'anni,
al sommo tratta per incantamento,
prima portata fu tra gli Alamanni;
li quali uno et un altro esperimento
facendone, e il demonio a' nostri danni
assuttigliando lor via più la mente,
ne ritrovaro l'uso finalmente.

Italia e Francia e tutte l'altre bande
del mondo han poi la crudele arte appresa.
Alcuno il bronzo in cave forme spande,
che liquefatto ha la fornace accesa;
bùgia altri il ferro; e chi picciol, chi grande
il vaso forma, che più e meno pesa:
e qual bombarda e qual nomina scoppio,
qual semplice cannon, qual cannon doppio;

qual sagra, qual falcon, qual colubrina
sento nomar, come al suo autor più agrada;
che 'l ferro spezza, e i marmi apre e ruina,
e ovunque passa si fa dar la strada.
Rendi, miser soldato, alla fucina
Pur tutte l'arme c'hai, fin alla spada;
e in spalla un scoppio o un arcobugio prendi;
che senza, io so, non toccherai stipendi.

Come trovasti, o scelerata e brutta
invenzion, mai loco in uman core?
Per te la militar gloria è distrutta,
per te il mestier de l'arme è senza onore;
per te è il valore e la virtù ridutta,
che spesso par del buono il rio migliore:
non più la gagliardìa, non più l'ardire
per te può in campo al paragon venire.

(Ludovico Ariosto, Orlando furioso, 1532, canto XI, 23-26)

A partire dalla metà del Trecento si constata, nei più diversi tipi di combattimento e nelle zone più differenti, l'apparizione dell'artiglieria. Così, qualche bombarda inglese sorprende già gli avversari alla battaglia di Crécy (1346); i pezzi installati dai Russi alla difesa del Cremlino fanno effetto sulle truppe tartare del Khan Tok-tamic, venuto ad attaccarli nel 1382. Da allora si inizia una lenta evoluzione, dalle primitive bombarde, larghe di bocca e molto corte, capaci di lanciare solo palle di pietra lungo una traiettoria quasi circolare, ai primi veri e propri cannoni della seconda metà del Quattrocento. Da arma buona soprattutto per operazioni d'assedio (anche se resterà tale assai a lungo) essa diventa un complesso di batterie mobili, grazie al loro affusto, atte a lanciare palle di bronzo con una gittata quasi rettilinea, d'una ben maggiore forza d'urto. Mentre sul piano delle tecniche contabili e bancarie sono gl'Italiani all'avanguardia, su quello della balistica sono i nordici: Tedeschi e Francesi in particolare. Anche in campo marittimo gli atlantici precedono, e distanzieranno sempre più, i mediterranei. Le galere da combattimento di questi ultimi, basse di fiancata, erano per di più ben poco adatte all'installazione dei nuovi pezzi, contrariamente alle unità d'alto bordo delle marine oceaniche. Senza dubbio l'introduzione dell'artiglieria non ha sconvolto l'arte della guerra: ma fra Tre e Quattrocento i suoi progressi sono regolari e tali che prima del 1500 se ne cominceranno a sentire vistosamente gli effetti. Del resto, la novità non risiedeva tanto nel cannone, quanto nello sfruttamento della polvere da sparo per lanciare proiettili a distanza, dirigendoli grazie ad una canna metallica. Quest'ultima assunse presto le più svariate lunghezze ed un peso tale da renderla manovrabile da due uomini o da uno solo. Tali armi individuali, il cui uso si fece sufficientemente largo a partire dal 1500, divennero davvero decisive: non solo e non tanto nelle lotte fra Europei o contro i Turchi (che seppero provvedersene assai bene) ma in quelle che non tardarono ad opporre gli Occidentali ai popoli degli altri continenti.
Mentre le armi tradizionali dominavano ancora nel secolo XIV e XV, lance, alabarde, frecce continuarono ad essere larghissimamente impiegate nel Cinque ed anche nel Seicento, così come gli scudi, gli elmi o le corazze; neppure la cavalleria entrò in crisi repentina. Non occorre insistere, tuttavia, sul fatto che tra armi bianche ed armi da fuoco nessuno poteva esitare più, purché disponesse dell'attrezzatura e delle capacità di procurarsi le seconde. I principi non poterono ormai far a meno di fornirsi d'artiglieria, la cui messa a punto ed impiego superavano le possibilità dei privati. Assai diversa si fece la situazione sul mare: ciascun vascello, anche mercantile, era in grado di trasportarne e di farne uso. A poco a poco, nessuna unità di una certa importanza si poté permettere di esserne sprovvista. Poiché i contatti con i paesi extra-europei non ebbero praticamente luogo altro che per via marittima, appare evidente il rilievo che assunse per secoli l'armamento dei vascelli occidentali nei loro confronti.
Per quanto riguarda l'Europa va sottolineato che le nuove possibilità balistiche imposero un completo rinnovamento delle opere difensive fisse. Muraglie, torrioni e fortezze cominciarono appunto a cambiare aspetto nella seconda metà del Quattrocento e lo mutarono soprattutto nel corso del secolo successivo. Le mura di pietra cedettero il posto a larghi argini o spalti rivestiti in cotto; scomparvero le torri ed apparvero bastioni sempre meglio profilati dagli ingegneri militari. Assalita da ogni lato, la penisola italiana concentrerà i suoi sforzi in questo settore delle opere difensive, di cui annovererà i maggiori competenti fino al Seicento.

(Alberto Tenenti, La formazione del mondo moderno, XIV-XVII secolo, Il Mulino, 1980)



Benedetti quei fortunati secoli cui mancò la spaventosa furia di questi indemoniati strumenti di artiglieria, al cui inventore io per me son convinto che il premio per la sua diabolica invenzione glielo stanno dando nell'inferno, perché con essa diede modo che un braccio infame e codardo tolga la vita a un prode cavaliere, e che senza saper né come né da dove, nel pieno del vigore e dell'impeto che anima e accende i forti petti, arrivi una palla sbandata (sparata da chi forse fuggi, al bagliore di fuoco prodotto dalla maledetta macchina), e recida e dia fine in un istante ai sentimenti e alla vita d'uno che avrebbe meritato di averla per lunghi secoli. E quindi, considerando ciò, sto per dire che mi duole nell'anima d'aver abbracciato questa professione di cavaliere errante in un'età cosi odiosa qual è quella che oggi viviamo; perché sebbene a me non ci sia pericolo che faccia paura, ciò nonostante, mi esaspera il pensare che della polvere e del piombo abbiano a negarmi la possibilità di rendermi noto e famoso per il valore del mio braccio e il filo della mia spada, per tutto quanto il mondo conosciuto. Ma faccia il cielo ciò che crederà, che se riesco nel mio proposito, sarò maggiormente stimato, per aver affrontato ben maggiori pericoli che non quelli ai quali si esposero i cavalieri erranti dei passati secoli.

(M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, trad. it. V. Bodini, Einaudi, 1972, voI, I, cap. 38, p. 431)











Dal dizionario


archibùgio (o archibuôo; ant. e raro arcobùgio) s. m. [dal fiammingo hakebus, medio alto ted. hakenbüchse "cannone a uncino"]. -
Una delle prime armi da fuoco portatili, pesante e poco maneggevole: a. da fuoco (o schioppo), il tipo più antico, ad avancarica, nel quale per l'accensione della carica si usò dapprima carbone acceso e in seguito una bacchetta di ferro arroventata; a. a forcella, grossa arma sostenuta da una forcella appoggiata a un treppiede o piantata a terra; a. a camera, a retrocarica; a. a miccia, nel quale l'accensione della carica si otteneva con una miccia attraverso un focone laterale; a. a corda, con una corda cotta invece della miccia; a. a serpe, dotato di acciarino a serpentino; a. a ruota; a. a doppio fuoco, ecc.
ƒ Dim. archibugétto (v.); accr. archibugióne (v.).

gennaio 24, 2002

Concorrenza sleale


Nella cornice ombrosa del ventennio fascista, in piena campagna razzista e persecuzioni antisemite, due commercianti di diversa professione religiosa si trovano a dover condividere lo stretto spazio di un marciapiede sotto la presenza maestosa del Cupolone. Due uomini d’affari, due padri di famiglia, due vite non a caso parallele divise dalla sottile linea della differenza religiosa e di un regime liberticida e autoritario. Da una parte Umberto, l’italico uomo medio in balia incosciente delle ferree regole del regime mussoliniano, dall’altra Leone, ebreo arguto, quasi sfacciato nella sua intraprendenza. Tra di loro i legami di amicizia e di amore che nascono tra i rispettivi figli coetanei, ingenui ed estranei protagonisti di un penoso capitolo della storia d"Italia. Attraverso gli occhi infantili e il racconto in prima persona di Pietruccio, figlio di Umberto, ci passano davanti gli anni più bui della dittatura, il condizionamento che le leggi razziali ebbero sui rapporti sociali, ma anche la capacità di riacquistare una dignità umana discostandosi dalle idee che apparivano più convenienti da sposare.

Finale amaro e realistico per un film che ha dalla sua un’insolita leggerezza nel trattare un tema in genere rappresentato drammaticamente, smussato nei suoi angoli più crudeli proprio dall’inconsapevole freschezza dello sguardo infantile. Un po’ scontato – anche se poi, in fin dei conti, la storia è la storia, e non la si può cambiare per un film – e retorico nell’espressione di certi sentimenti umani, Concorrenza sleale indaga il sentire di quella fetta di popolazione italiana che non è composta né da eroi né da martiri, ma che a queste due categorie ha fornito terreno fertile. Quelli che non hanno fatto la storia da protagonisti ma che hanno fatto in modo che la storia accadesse, quella maggioranza silenziosa e qualunque ingabbiata negli spazi angusti di una realtà che non aveva scelto ma che non sapeva combattere.


Sai qual'è l'amaro paradosso? Io sono poco eppure sono di troppo.



gennaio 10, 2002

American Beauty


Lungo i viali dei quartieri residenziali si allineano linde villette circondate da giardini in cui trovano posto barbecue, biciclette adagiate in terra e aiuole fiorite. E’ lo scenario di un tipico angolo della più classica delle provincie americane quello in cui Mendes descrive le parabole esistenziali di una standard family d’oltreoceano. Lester, pubblicitario, Carolyn, agente immobiliare, Jane, la figlia, adolescente irrequieta e insoddisfatta. Tre esistenze vissute nell’illusione di formare una reale unità di affetti, nella falsa consapevolezza che una vita senza sussulti e senza slanci fosse, in fondo, quanto di meglio fosse loro concesso. Almeno fino a quando Lester, nella più classica delle crisi di mezza età, invaghendosi della migliore amica della figlia, si sveglia dal torpore e comincia una costante, testarda, dirompente opera di svelamento della realtà.
L’American way of life del tranquillo microcosmo di quartiere cade sotto i colpi di questo improvviso risveglio, palesando piccoli e grandi orrori quotidiani celati dietro una patina di vernice bianca.
C’è qualcuno che non rispetta le regole, che frantuma le convenzioni sociali, che ignora quei confini e scavalca quegli steccati che delimitano il territorio del lecito da quello dell’inopportuno. Ma non è una corsa solitaria quella che vuole fare Lester: prova a coinvolgere la moglie (ma lei sul più bello è più preoccupata di non rovinare il divano di seta italiana) e la figlia (che per tutta risposta ad un certo punto medita, non si sa fino a che punto scherzando, di ucciderlo). Ma si scontra sempre contro il muro di una società smarrita, malata, che dissimula in modo più o meno consapevole la profonda solitudine che inchioda ognuno dentro se stesso e al proprio ruolo che, volente o nolente, è costretto a giocare ogni giorno. Sembra quasi che nessuno voglia accettare le differenze di chi gli sta accanto. E il dramma finale si pone come soluzione possibile di una vita piccola, ma, perché vita, bella.

Mendes mescola con grande equilibrio i toni ironici con quelli più amari e malinconici, dipingendo un ritratto graffiante e al vetriolo quanto mai efficace di una società – la nostra, occidentale – in corsa verso il nulla, che verrà salvata, forse, dai ragazzi, ancora non del tutto contaminati dal male di vivere (o, meglio, del non vivere) degli adulti.

gennaio 09, 2002

Rassegna 2002


Differences

"Ci sono sguardi, toni di voce, gesti che colpiscono nei centri nervosi più sensibili e delicati. Se non ce ne si accorge, vuol dire che si sta morenso. Se ce ne si accorge, si è vivi, semplicemente"

( Göran Tunström)

La rassegna del nuovo anno comprende i seguenti film, sulla tematica delle differenze:

American Beauty (2000) di Sam Mendes 10 gennaio 2002

Lungo i viali dei quartieri residenziali si allineano linde villette circondate da giardini in cui trovano posto barbecue, biciclette adagiate in terra e aiuole fiorite. E’ lo scenario di un tipico angolo della più classica delle provincie americane quello in cui Mendes descrive le parabole esistenziali di una standard family d’oltreoceano.
Un ritratto graffiante e al vetriolo quanto mai efficace di una società – la nostra, occidentale – in corsa verso il nulla, che verrà salvata, forse, dai ragazzi, ancora non del tutto contaminati dal male di vivere (o, meglio, del non vivere) degli adulti.

Concorrenza sleale (2001) di Ettore Scola 24 gennaio 2002

Diego Abatantuono e Sergio Castellitto: due professioni quasi identiche nella piena attuazione delle leggi razziali in Italia (1938). La “scoperta” della differenza fa esplodere l’amicizia e la stima.


Il mestiere delle armi (2000) di Ermanno Olmi 31 gennaio 2002

Il film avra’ inizio alle 18.30 e sara’ preceduto da una introduzione di Danilo Amione, critico cinematografico.

L’ingresso nella storia delle armi da fuoco segna la “differenza” tra il vecchio e nuovo modo di combattere. E’ la storia di un eroe che non vuole cedere ai compromessi, una metafora che racchiude in se’ la verita’ sulla Vita e sulla Morte.

Essere John Malkovich (1999) di John Malkovich 7 marzo 2002

Costretto a lavorare come archivista in un'azienda situata al settimo piano e mezzo (!) di un edificio per poter sbarcare il lunario, Craig scopre dietro uno scaffale un tunnel, che porta direttamente nella testa dell'attore John Malkovich (interpretato da se stesso).
E’ un racconto surreale sul desiderio, molto diffuso tra la gente, di poter vivere la vita di un'altra persona, meglio ancora se questa è famosa. E’ ancora una volta la differenza tra realta’ e finzione, tra quotidianita’ e immaginario.


Le fate ignoranti (2000) di Ferzan Ozpetek 21 febbraio 2002

La differenza tra due famiglie, una “chiusa” e un’altra “aperta” .
Un invito ottimista a fidarsi del prossimo, a non avere pregiudizi, di nessun tipo, ad abbandonare la paura di chi parla con lingue e/o moralità diverse o anche soltanto di chi non la pensa come noi.

Viaggio a Kandahar (2001) di Mohsen Makhmalbaf 21 marzo 2002

Il film avra’ inizio alle 18.30 e sara’ preceduto da un’introduzione di un esperto di cultura araba e islamica.

Nafas, una giornalista fuggita dall'Afghanistan durante la guerra dei Talibani e rifugiata in Canada, riceve una lettera disperata da sua sorella minore che minaccia di suicidarsi nel giorno dell'ultima eclissi del millennio. Nafas decide di attraversare il confine irano-afgano per andare a Kandahar in soccorso alla sorella.
Una storia tremendamente attuale, presentata in tempi non ancora sospetti: estremismi estetici attorniati da ricchi costumi, pittoresche composizioni di gruppo, bellissimi paesaggi.