Il cinema silenzioso e minimale al servizio della Storia
Questo l'Ermanno Olmi uscito da Cannes 2001. Cantore del quotidiano fin dagli esordi( “Il tempo si è fermato", 1959) in questo suo ultimo film il grande regista sembra voler dare un quadro definitivo dell'Uomo e del suo Destino. E tutto senza allontanarsi minimamente dai suoi sguardi e toni precedenti. Anzi, dando ad essi contorni e inquadrature che solo un regista giunto al culmine della sua arte può offrirci. Gli ultimi giorni di vita dei condottiero papalino Joanni de’ Medici, detto "dalle Bande Nere", morto a soli 28 anni nel 1526, a seguito delle ferite riportate in battaglia, questa l'esile trama di un film che racchiude in sé verità sulla Vita e la Morte. E' nel '500 che il regista intravede, infatti, l'inizio di quella Modernità che fa dell'uomo strumento e non più Essere. La modernità del Pensiero e della Tecnologia è più dei Lanzichenecchi di Carlo V la vera nemica di Joanni. Machiavelli e le armi da fuoco, allora all'esordio, squarciano l'esistenza e l'armatura dei mestieranti dell'arma bianca, conducendo all'agonia l'Eroe che non conosce compromessi e archibugi, spalancando le porte della Storia all'incertezza e alla vulnerabilità. Ecco che allora il cerchio naturale Vita-Morte , simboleggiato dallo scontro corpo a corpo, si rompe senza più possibilità di ricucirsi. E a conferma di quanto la natura umana sia recidiva nell'accompagnarsi al male, Olmi inserisce, significativamente, all'inizio del film la frase del poeta latino Tibullo sulle spade«usate oramai dall'uomo più per uccidere che non allo scopo, per cui erano nate, di facilitarne la vita»; mentre, dolorosamente rassegnato, chiude il film sull'appello cinquecentesco, seguito proprio alla morte di Joanni«affinchè mai più venisse usata contro l'uomo la potente arma da fuoco».
La religiosità dell'autore de "L'albero degli zoccoli" non si appella, dunque, a nessun maligno da scacciare, crocifisso in mano, e prende invece atto dei fallimenti dell'uomo dinnanzi a se stesso. Il cannone, ripreso sapientemente e ripetutamente in primo piano, altro non è che il simbolo di una bocca ferina aperta dall'uomo e nutrita dallo stesso con la propria carne. Il non riuscire a dominare il proprio essere, la propria intelligenza, è lo scacco assoluto entro cui l'umanità si è irrimediabilmente collocata. Il tradimento machiavellico perpetrato dai Gonzaga e dagli Estensi a danno di Joanni, e finalizzato dal colpo di cannone lanzichenecco che ne spappola la gamba portandolo alla morte, altro non è che uno dei milioni di gesti che hanno condotto la storia ad un tragico concatenarsi di cause ed effetti, sulla grande ruota dei gioco delle convenienze. E' un cinema capace di sorprendere nel sapiente muoversi dei protagonisti nelle scene corali, in cui i soldati disseminati su campi di battaglia aridi, nebbiosi e senza confini sembrano fantasmi di se stessi in balia di un destino già scritto. E quando dal corale si passa alle scene individuali, l'arte di Olmi si fa somma, sfiorando il puro incantamento nella capacità che egli ha di comunicarci appieno la percezione della morte che sta vivendo il protagonista, nei quattro giorni della sua agonia. Tutti, medici e soldati, si muovono attorno a Joanni moribondo in un chiaroscuro che Olmi, in maniera geniale, disegna come anticipazione di un altrove che presto accoglierà le ombre del martire guerriero, vissuto alla fine di un'epoca che in extremis lo ha accolto come eroe. E la sequenza finale dei funerali segna il momento solenne con cui si chiude un'esistenza ed un mondo oramai al tramonto. Il ricordo della moglie e dei figlio lontani, che sul letto di morte coglie Joanni, come pure l'immagine della nobildonna suo segreto amore, sono legati nella penombra di una visione che nel suo svanire segna la fine di un’esistenza vissuta nell’osservanza di una morale necessaria al vivere comune. Riemerge, dunque, prepotente, ancora una volta, uno dei grandi temi dei cinema di Olmi la solitudine dell'uomo dinnanzi alle grandi imprescindibili scelte della vita. E come a voler fissare tutto ciò nella memoria dello spettatore, il regista si sofferma lungamente, nel prefinale, sul corpo oramai inerme e straziato di Joanni, ad estrema testimonianza dell'offesa che Nomo ha irrimediabilmente arrecato al suo prossimo e dunque a se stesso. Quello di Olmi è, come sempre, cinema di poesia, capace quando coniugato alla Storia, come in questo caso, non soltanto di emozionare ma anche di ricordare chi siamo, da dove veniamo.e quale destino ci attende.
Lungo il corso del ‘400 ci sono varie modifiche in tanti campi. Uno di questi è quello della guerra. Il processo di formazione di un esercito di tipo nuovo, fondato sulla preminenza della fanteria rispetto alla cavalleria, offre più sicurezza. Gli eserciti offrono alle monarchie nazionali quel sostegno che nei secoli precedenti la cavalleria, espressione dei ceti feudali, aveva spesso fatto mancare. Tutto ciò determina una crisi progressiva di un’altra importante istituzione medievale, la compagnia di ventura. C’è anche un affinamento della tecnologia militare: i pesanti archibugi, apparsi agli inizi del secolo, divennero più leggeri e precisi, oltre che più sicuri per chi li manovrava, grazie all’impiego della miccia a combustione lenta.
La diffusione di armi da fuoco sempre più affidabili diede il colpo finale al vecchio modo di guerreggiare: si pensi all’armatura, simbolo dell’epoca, che di fronte alla forza dei proiettili perse ogni significato. La guerra con le armi da fuoco diventa un fenomeno sociale, che non può più lasciare indifferenti.
La fine della cavalleria e dei suoi valori, veri o presunti che fossero, suscitò un vasto rimpianto in coloro che avevano idealizzato il mondo che la circondava. Nell'Orlando furioso Ludovico Ariosto (1474-1533) evita consapevolmente, in quasi tutto il poema, di far riferimento alle nuove armi da fuoco.
L'unico cenno esplicito alla questione, per bocca del narratore del poema, si ha alla conclusione del duello fra Orlando e Cimosco. Ariosto si scaglia con irruenza contro le armi da fuoco, utilizzate poco cavallerescamente dall'avversario del paladino. Tali armi sono elencate come un'accozzaglia di strumenti diabolici quasi incomprensibili e accusate di stravolgere tutto il sistema di valori militari (il valore, la virtù, la gagliardia, l'ardire) della cavalleria. Pertanto Orlando, il modello delle antiche virtù cavalleresche, viene incaricato da Ariosto di gettare in fondo al mare un antico prototipo dell'archibugio, di cui si serve il truce e fellone re di Frisia, Cimosco. Invano: secoli dopo la "machina infernal" verrà ritrovata.
La machina infernal, di più di cento
passi d'acqua ove stè ascosa molt'anni,
al sommo tratta per incantamento,
prima portata fu tra gli Alamanni;
li quali uno et un altro esperimento
facendone, e il demonio a' nostri danni
assuttigliando lor via più la mente,
ne ritrovaro l'uso finalmente.
Italia e Francia e tutte l'altre bande
del mondo han poi la crudele arte appresa.
Alcuno il bronzo in cave forme spande,
che liquefatto ha la fornace accesa;
bùgia altri il ferro; e chi picciol, chi grande
il vaso forma, che più e meno pesa:
e qual bombarda e qual nomina scoppio,
qual semplice cannon, qual cannon doppio;
qual sagra, qual falcon, qual colubrina
sento nomar, come al suo autor più agrada;
che 'l ferro spezza, e i marmi apre e ruina,
e ovunque passa si fa dar la strada.
Rendi, miser soldato, alla fucina
Pur tutte l'arme c'hai, fin alla spada;
e in spalla un scoppio o un arcobugio prendi;
che senza, io so, non toccherai stipendi.
Come trovasti, o scelerata e brutta
invenzion, mai loco in uman core?
Per te la militar gloria è distrutta,
per te il mestier de l'arme è senza onore;
per te è il valore e la virtù ridutta,
che spesso par del buono il rio migliore:
non più la gagliardìa, non più l'ardire
per te può in campo al paragon venire.
(Ludovico Ariosto, Orlando furioso, 1532, canto XI, 23-26)
A partire dalla metà del Trecento si constata, nei più diversi tipi di combattimento e nelle zone più differenti, l'apparizione dell'artiglieria. Così, qualche bombarda inglese sorprende già gli avversari alla battaglia di Crécy (1346); i pezzi installati dai Russi alla difesa del Cremlino fanno effetto sulle truppe tartare del Khan Tok-tamic, venuto ad attaccarli nel 1382. Da allora si inizia una lenta evoluzione, dalle primitive bombarde, larghe di bocca e molto corte, capaci di lanciare solo palle di pietra lungo una traiettoria quasi circolare, ai primi veri e propri cannoni della seconda metà del Quattrocento. Da arma buona soprattutto per operazioni d'assedio (anche se resterà tale assai a lungo) essa diventa un complesso di batterie mobili, grazie al loro affusto, atte a lanciare palle di bronzo con una gittata quasi rettilinea, d'una ben maggiore forza d'urto. Mentre sul piano delle tecniche contabili e bancarie sono gl'Italiani all'avanguardia, su quello della balistica sono i nordici: Tedeschi e Francesi in particolare. Anche in campo marittimo gli atlantici precedono, e distanzieranno sempre più, i mediterranei. Le galere da combattimento di questi ultimi, basse di fiancata, erano per di più ben poco adatte all'installazione dei nuovi pezzi, contrariamente alle unità d'alto bordo delle marine oceaniche. Senza dubbio l'introduzione dell'artiglieria non ha sconvolto l'arte della guerra: ma fra Tre e Quattrocento i suoi progressi sono regolari e tali che prima del 1500 se ne cominceranno a sentire vistosamente gli effetti. Del resto, la novità non risiedeva tanto nel cannone, quanto nello sfruttamento della polvere da sparo per lanciare proiettili a distanza, dirigendoli grazie ad una canna metallica. Quest'ultima assunse presto le più svariate lunghezze ed un peso tale da renderla manovrabile da due uomini o da uno solo. Tali armi individuali, il cui uso si fece sufficientemente largo a partire dal 1500, divennero davvero decisive: non solo e non tanto nelle lotte fra Europei o contro i Turchi (che seppero provvedersene assai bene) ma in quelle che non tardarono ad opporre gli Occidentali ai popoli degli altri continenti.
Mentre le armi tradizionali dominavano ancora nel secolo XIV e XV, lance, alabarde, frecce continuarono ad essere larghissimamente impiegate nel Cinque ed anche nel Seicento, così come gli scudi, gli elmi o le corazze; neppure la cavalleria entrò in crisi repentina. Non occorre insistere, tuttavia, sul fatto che tra armi bianche ed armi da fuoco nessuno poteva esitare più, purché disponesse dell'attrezzatura e delle capacità di procurarsi le seconde. I principi non poterono ormai far a meno di fornirsi d'artiglieria, la cui messa a punto ed impiego superavano le possibilità dei privati. Assai diversa si fece la situazione sul mare: ciascun vascello, anche mercantile, era in grado di trasportarne e di farne uso. A poco a poco, nessuna unità di una certa importanza si poté permettere di esserne sprovvista. Poiché i contatti con i paesi extra-europei non ebbero praticamente luogo altro che per via marittima, appare evidente il rilievo che assunse per secoli l'armamento dei vascelli occidentali nei loro confronti.
Per quanto riguarda l'Europa va sottolineato che le nuove possibilità balistiche imposero un completo rinnovamento delle opere difensive fisse. Muraglie, torrioni e fortezze cominciarono appunto a cambiare aspetto nella seconda metà del Quattrocento e lo mutarono soprattutto nel corso del secolo successivo. Le mura di pietra cedettero il posto a larghi argini o spalti rivestiti in cotto; scomparvero le torri ed apparvero bastioni sempre meglio profilati dagli ingegneri militari. Assalita da ogni lato, la penisola italiana concentrerà i suoi sforzi in questo settore delle opere difensive, di cui annovererà i maggiori competenti fino al Seicento.
(Alberto Tenenti, La formazione del mondo moderno, XIV-XVII secolo, Il Mulino, 1980)
Benedetti quei fortunati secoli cui mancò la spaventosa furia di questi indemoniati strumenti di artiglieria, al cui inventore io per me son convinto che il premio per la sua diabolica invenzione glielo stanno dando nell'inferno, perché con essa diede modo che un braccio infame e codardo tolga la vita a un prode cavaliere, e che senza saper né come né da dove, nel pieno del vigore e dell'impeto che anima e accende i forti petti, arrivi una palla sbandata (sparata da chi forse fuggi, al bagliore di fuoco prodotto dalla maledetta macchina), e recida e dia fine in un istante ai sentimenti e alla vita d'uno che avrebbe meritato di averla per lunghi secoli. E quindi, considerando ciò, sto per dire che mi duole nell'anima d'aver abbracciato questa professione di cavaliere errante in un'età cosi odiosa qual è quella che oggi viviamo; perché sebbene a me non ci sia pericolo che faccia paura, ciò nonostante, mi esaspera il pensare che della polvere e del piombo abbiano a negarmi la possibilità di rendermi noto e famoso per il valore del mio braccio e il filo della mia spada, per tutto quanto il mondo conosciuto. Ma faccia il cielo ciò che crederà, che se riesco nel mio proposito, sarò maggiormente stimato, per aver affrontato ben maggiori pericoli che non quelli ai quali si esposero i cavalieri erranti dei passati secoli.
(M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, trad. it. V. Bodini, Einaudi, 1972, voI, I, cap. 38, p. 431)
Dal dizionario
archibùgio (o archibuôo; ant. e raro arcobùgio) s. m. [dal fiammingo hakebus, medio alto ted. hakenbüchse "cannone a uncino"]. -
Una delle prime armi da fuoco portatili, pesante e poco maneggevole: a. da fuoco (o schioppo), il tipo più antico, ad avancarica, nel quale per l'accensione della carica si usò dapprima carbone acceso e in seguito una bacchetta di ferro arroventata; a. a forcella, grossa arma sostenuta da una forcella appoggiata a un treppiede o piantata a terra; a. a camera, a retrocarica; a. a miccia, nel quale l'accensione della carica si otteneva con una miccia attraverso un focone laterale; a. a corda, con una corda cotta invece della miccia; a. a serpe, dotato di acciarino a serpentino; a. a ruota; a. a doppio fuoco, ecc.
ƒ Dim. archibugétto (v.); accr. archibugióne (v.).